giovedì 28 agosto 2008

L'illusione del "Prodotto Interno Lordo"



Uno dei miti oggi più in voga e più discussi, che costituisce background comune a tutti i partiti politici sia di destra che di sinistra, è quello della crescita, del PIL (prodotto interno lordo) che deve necessariamente crescere di anno in anno, pena le sorti dell’intero Paese di riferimento.

A tale mito è giocoforza connessa l’idea di uno sviluppo illimitato, uno “sviluppo” industriale per gran parte dissennato, radicatosi profondamente in un sistema di corruzione e malaffare generalizzato che affligge ormai cronicamente il nostro paese con conseguenze disastrose sulla qualità della vita e della salute di noi cittadini. L’unico scopo della politica e dell’economia è quello della massimizzazione morbosa della produzione e dei profitti come se la terra che ci ha ospitato, che ci ospita e che ci ospiterà non si sa ancora per quanto tempo, sia solo un qualcosa da sfruttare e piegare ai propri fini, costi quel che costi e a scapito di tutti e di tutto.

Sicuramente è da riconoscere che il concentrare tutti gli sforzi e le risorse sulla crescita economica e quindi sulla produttività e sui consumi, ha prodotto sinora, in una parte del globo, una certa ricchezza materiale. Ma per quanto tempo ancora potremmo assistere a questo miracolo economico senza, prima o poi, cadere vittime del sistema stesso? Quanto tempo dovrà ancora trascorrere prima che si capisca che tale sistema economico basato sullo sfruttamento sconsiderato e sistematico dei sistemi ecologici è insostenibile per la biosfera (vedasi il caos climatico, desertificazione, picco del petrolio, perdita di biodiversità, deforestazione)? Quanto si capirà che la Terra ove viviamo è una ed una sola, e che quando sarà irrimediabilmente compromessa non ci sarà più alcuna speranza di vita per l’essere umano?

Gli effetti negativi di tale perverso sistema si vedono anche sul piano sociale: aumento della povertà nel mondo, aumento sempre più evidente delle disuguaglianze economiche, aumento della disoccupazione e della precarietà, aumento del tempo dedicato al lavoro con conseguente incremento dello stress e decremento della qualità della vita e del tempo libero e di quello dedicato alle relazioni sociali, alla famiglia, ai figli.

Il PIL è dunque un semplice indicatore monodimensionale cioè basato solo sul valore economico: non tiene quindi conto né dell’aspetto qualità della vita e quindi felicità delle persone, né tantomeno dell’aspetto ambientale né di quello relativo alla salute.

Si sono mai calcolati i costi ambientali e le cure delle malattie collegate all’inquinamento derivante da uno “sviluppo” da raggiungere ad ogni costo? E soprattutto, chi li paga questi costi?

Come sostiene Luca De Biase autore di diversi libri tra cui “Economia della felicità”, “la felicità è un indicatore non paternalista, non stabilito da esperti come molti altri, ma soggettivo, espresso dal basso, dalla gente che mette priorità diverse da quelle degli esperti di settore in cima alla lista” (salute al posto di economia, ad esempio).

Il PIL, come sappiamo, è la somma della ricchezza che si produce in un paese, cioè dovrebbe misurare i beni prodotti in un certo Paese. In realtà esso misura soltanto gli oggetti e i servizi che vengono scambiati con il denaro, e non tutto ciò che una persona si produce eventualmente in proprio per se stessa o per scambiarlo/barattarlo con altre persone. Ciò non fa crescere il PIL: il concetto di merce, quindi, è ben diverso da quello di bene. Ci sono perciò merci che fanno crescere il PIL , ma che non comportano necessariamente un aumento del benessere.

A tale indicatore viene quindi imputato ingiustamente non solo la ricchezza economica ma anche il livello qualitativo della nostra vita, che è cosa ben diversa. L'equazione crescita del PIL=crescita del benessere non regge!

Facciamo alcuni esempi: l’autoproduzione, le fonti rinnovabili, il risparmio energetico sono tutti interventi che non fanno crescere il PIL ma che portano benessere per gli individui e l’ambiente. Se costruisco una casa all’italiana maniera, e cioè senza tener conto del risparmio energetico, per riscaldarla consumo circa 20 litri di gasolio all’anno per mq. Se invece la costruisco prendendo esempio dai tedeschi riesco a costruirla in modo che il consumo annuo sia di soli 6 litri di gasolio. Questo inutile spreco di energia (circa 14 litri), questo inutile danno all’ambiente, alla salute e alle tasche di noi italiani, fa aumentare il PIL ma non migliora di certo la nostra qualità della vita! Quindi i 14 litri di differenza sono soltanto una merce che serve a far crescere il PIL, ma non sono un bene perché non portano alcuna utilità se non alle tasche dei petrolieri e dello Stato, grazie alle accise che incassa.

Rimanere imbottigliati nel traffico per ore per recarsi al super centro commerciale o per recarsi al lavoro determina un aumento dei consumi dell’auto: ciò fa crescere il PIL, poichè le compagnie petrolifere vendono piu' combustibile, ma la qualità della nostra vita non è migliorata, anzi è peggiorata in quanto abbiamo respirato un surplus di nanoparticelle che aumentano il rischio di contrarre il cancro, ci siamo arrabbiati a causa del traffico ed abbiamo perso tempo, ed il tempo, come si sa, è denaro. Eppure il PIL è aumentato ma non il nostro benessere.

La guerra si sa, è una cosa bruttissima: eppure grazie ad essa il PIL del Paese in guerra aumenta grazie all’aumento della produzione dell’industria bellica e di tutte quelle ad essa collegate.

Fumare fa male alla salute, ci espone a tantissimi rischi: eppure andare dal tabaccaio a comprare le sigarette fa crescere il PIL. In tal caso c’è una doppia crescita dovuta anche alle spese che la Sanità dovrà sostenere per curare eventualmente il fumatore dopo che si sarà ammalato di cancro ai polmoni o di malattie cardiovascolari. Anche le spese mediche, infatti, fanno crescere il PIL. Quindi più ci si ammala, più si vendono farmaci (spesso inutili o, peggio ancora, dannosi) e più cresce il PIL.

Fare un incidente non è certo una bella cosa: eppure anche in tal caso il PIL cresce, in quanto siamo costretti a comprare un’altra macchina o ad aggiustarla. Entrambe le cose fanno crescere il PIL ma certamente non ci fanno stare meglio!

Acquistare una bicicletta costa meno che acquistare un’automobile e di conseguenza si ha una minore crescita del PIL. La qualità della nostra vita e dell’intera comunità ove viviamo subiscono, però, un notevole incremento della qualità della vita, in termini di mancati infarti causati da eccesso di colesterolo, mancate emissioni di gas velenosi, riduzione dei casi di tumore, riduzione dell’inquinamento acustico, risparmio di energia, ecc.

Potrei continuare con altri esempi all’infinito, ma mi fermo qui.

Il PIL, quindi , “guarda” soltanto ai consumi, non tiene assolutamente conto dei risvolti negativi che tali consumi hanno sulla nostra qualità della vita e su quella delle generazioni future.

Una politica seria, un’informazione con la I maiuscola, quando parla di crescita di PIL dovrebbe, quindi, parlare anche di crescita di rifiuti urbani , che negli ultimi 5 anni sono cresciuti di circa il 12% sino a raggiungere decine di milioni di tonnellate/anno, dovrebbe parlare anche di crescita di concentrazione di CO2 in atmosfera, di crescita delle temperature medie del pianeta con tutte le nefaste conseguenze negative da essa derivanti, di crescita del livello di inquinamento delle nostre città e del numero di persone, soprattutto bambini, che si ammalano a causa della cattiva qualità dell'aria, di crescita dei terreni agricoli desertificati a causa dell'agricoltura chimica e intensiva, di crescita degli sprechi e dei falsi bisogni inculcati nella nostra mente dalla pubblicità, che determinano un aumento dell'impronta ecologica degli italiani, che oggi, a differenza degli anni passati, consumano circa 3 volte le risorse naturali che un territorio grande quanto l'Italia sarebbe capace di produrre.

Bisognerebbe parlare anche di crescita del prezzo del petrolio, arrivato sino alla soglia dei 150 dollari al barile per poi retrocedere leggermente per soli motivi tecnici. A breve riprenderà sicuramente la sua inarrestabile salita.

Bisognerebbe, infine, parlare di crescita della disoccupazione e della precarietà del lavoro contemporaneamente alla crescita della globalizzazione dei mercati e dell'economia.
Si fa sempre più concreta, perciò, l’equazione crescita del PIL=diminuzione della qualità della vita. Una crescita senza limiti ed infinita è dunque irrealizzabile se non sacrificando la nostra esistenza.

Come disse Robert Kennedy nel discorso del1’8 marzo 1968 presso l’ Università del Kansas, “non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche
l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto
le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL
non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve,
eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani.".

Parole sante che andrebbero lette e rilette ogni giorno da tutti i cittadini del mondo. E ancora, come dice Beppe Grillo, “l’equazione PIL = ricchezza è un incantesimo. I prodotti inutili non diventano utili perché qualcuno li compra. Nessuno ha mai calcolato il COSTO del PIL. I danni dei capannoni vuoti, delle merci inutili, dei camion che girano vuoti come insetti impazziti, della distruzione del pianeta. Nessuno ha mai stimato il valore del tempo perduto per le code, per gli anni sprecati a lavorare per produrre oggetti inutili. Per gli anni buttati per comprare oggetti inutili creati dalla pubblicità.”

Inoltre, bisogna considerare anche un altro aspetto.

Il consumo incessante e sconsiderato delle risorse globali si sta chiaramente traducendo in un aumento dei conflitti locali e delle guerre per il controllo delle risorse e , di conseguenza, in una restrizione degli spazi di democrazia reale nel mondo. Ma la cosa più grave di tutto ciò è l’indifferenza del popolo, l’assuefazione a cui tale sistema ci ha condotto. Non ci scandalizza più nulla: né una guerra per il petrolio, né un mutamento climatico né i veleni che ogni giorno siamo costretti a respirare, a mangiare, a bere e a spalmarci sulla pelle! La crescita produce quindi dipendenza psicologica. Non possiamo fare più a meno di andare al supermercato e a riempire il carrello con prodotti di ogni tipo, utili o inutili non importa…l’importante è consumare e far crescere il PIL, così la nostra classe dirigente sarà contenta e soddisfatta di aver ancora una volta dominato il parco buoi!

E’ dunque vera l’equazione crescita del PIL uguale ad aumento del benessere individuale?

A giudicare da quanto sta avvenendo negli ultimi anni direi proprio di no.

Continuare a parlare di crescita del PIL significa dunque non voler accettare la realtà, non voler in alcun modo aprire gli occhi e considerare la crescita per ciò che effettivamente è, cioè un’idea di ricchezza che non tiene in alcun modo in considerazione gli insostenibili costi ecologici e sociali dello sviluppo stesso, del degrado indotto dalla mercificazione della vita, della crescente conflittualità internazionale attorno alle sempre più scarse e care risorse naturali.

Il modo per uscirne?

In primis mettere in discussione il mito della crescita a tutti i costi e riequilibrare l’ossessione della produzione con la consapevolezza delle necessità di produzione. Non più una società basata solo sul profitto e sui beni materiali, ma una società che metta al primo posto le persone e le relazioni, che rivaluti l’importanza dei beni immateriali su quelli materiali, che sia a favore di una tecnologia durevole e sostenibile, che sappia dare sempre più spazio alla solidarietà, al bene comune e alla valorizzazione dell’ambiente piuttosto che al solo e mero interesse privato.

La strada da percorrere è, dunque, quella della riduzione dei consumi che in gran parte sono sprechi.

Come dice il grande Maurizio Pallante, autore del bellissimo libro "La decrescita felice",“ridurre i consumi significherebbe migliorare la qualità dell'aria, dell'acqua, del territorio e, in definitiva, della vita. La qualità della nostra vita non dipende da quante merci riusciamo a consumare. Al contrario, ridurre l'invadenza delle merci e dei consumi nella nostra vita è l'unico modo per migliorarne la qualità: siamo giunti a un tale livello di spreco che qualsiasi attività umana può essere fatta con minore impiego di risorse naturali, minori scarti e minore inquinamento”.

E per finire:

Solo quando l'ultimo fiume sarà prosciugato
quando l'ultimo albero sarà abbattuto
quando l'ultimo animale sarà ucciso
solo allora capirete che il denaro non si mangia
."
Profezia Creek

1 commento:

Stefano ha detto...

Complimenti sinceri per questo articolo, che pur trattando un tema concettualmente impegnativo, si lascia leggere con estrema fluidità e coinvolgimento! Che dire, hai messo a nudo l'essenza fallace del nostro vivere quotidiano, ormai impregnato di effimeri e fuorvianti valori... o meglio non-valori. L'assuefazione colletiva è tale da non farci rendere conto di queste tante piccole cose, che stanno però alla base di quei fenomeni macroscopici riscontrabili ad un livello aggregato su varia scala, nazionale, o addirittura globale. Leggendo il tuo articolo, tutto ciò si mostra chiaro e trasparente. L'ideologia di massa ha voluto guidarci su questa strada, plasmandoci pazientemente e metodicamente come argilla sui falsi miti della quantità, del profitto cieco ed egoista, dell'immagine e dell'apparenza. Del fare più del nostro prossimo, avere di più, riscuotere più successo. Ed è così che siamo finiti per valutarci sulla base di quanto guadagnamo, piombando in una perenne insoddisfazione e frustrazione, o per la macchina che guidiamo, o per quanto sappiamo alzare la voce, più degli altri che già stanno urlando. La conseguenza, autolesionista per noi stessi, e quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Le nostre città sono inaccessibili, raggiungere il centro nell'ora di punta (se ha ancora senso parlare di "ora"...giacchè sono ormai diverse...quasi la regola) equivale ad espugnare Fort Knox, raggiungere l'ufficio significa restare in trappola della propria auto, sperando che i vicini di disavventura restino entro i limiti della "piazzola" loro assegnata dal caos generale, mentre qualche impavido pedone in perenne bilico fra l'essere e il "fu", deambulando stancamente ci lascia sui pedali come il miglior Pirata in fuga sul Galibier. Non siamo più padroni del nostro spazio, liberi di usare il nostro tempo. Uno per macchina rigorosamente, intrappolando nella ragnatela anche i pochi sprovveduti, vecchi e sporchi autobus. Verissimo quanto dici. Siamo tutti accecati dall'ottuso imperativo di produrre, perchè così ci è stato detto, perchè così ci viene ricordato ogni giorno, metodicamente, pazientemente, fin dentro l'intimità delle nostre mura. E questa missione, questo dovere sociale che ha ciascuno di noi di alimentare il PIL, ci fa digerire meglio la pillola amara del malessere che oggi ci attanaglia tutti. Ebbene si, si può, anzi si deve, bruciare tempo e litri di gasolio con la propria "monoposto" ogni giorno per andare in ufficio, non in autobus o in treno, perchè dopo bisogna avere l'indipendenza per fare le nostre N commissioni quotidiane (ove per commissione si intende oggi anche l'andare a vedere in vetrina l'ultimo cellulare pubblicizzato), o spendere 600euro per 30mq in affitto, dimezzando in molti casi la propria remunerazione mensile, quello cioè che "il libero mercato del lavoro" eroga a nostro favore in compenso del nostro contributo al PIL...dopo averlo debitamente depurato di quanto in eccesso tramite tassazione. Mi chiedo quale sia il contributo al PIL dei proprietari di immobili attraverso il drenaggio di soldi perpetrato con canoni sconsiderati ed offensivi per la decenza umana a già munti concittadini. Non sarebbe forse meglio aumentare il "rendimento sociale", come le stesse leggi fisiche ci insegnano? Ovvero aumentare il rapporto fra "lavoro utile" ed "energia spesa" per produrlo? Qual'è il rendimento di una società che imballa i propri beni con un superficiale e distratto depauperamento di materie prime pregiate...trattate alla stregua di "rifiuti"? Qual'è il rendimento di una società che tiene migliaia di motori accesi su una strada, mobili alla velocità di 10km/h? O che tiene centrali termiche condominiali a tutto gas fino ad aprile, quando ormai alcuni hanno già fatto il bagno nella riviera ligure, mentre finestre molto "permissive" consentono un vigoroso ricambio d'aria... e i muri ignorano ogni basilare legge della termotecnica? In conclusione, più che persistere nella pericolosa e criminale illusione che incrementare il solo numeratore della frazione che definisce il nostro rendimento collettivo, cioè il lavoro utile, senza curarsi della conseguente dinamica del denominatore, cioè l'energia spesa per produrlo, bisognerebbe prendere coscienza che l'effetto complessivo potrebbe essere esattamente opposto a quello atteso, o a quello dichiarato da chi di dovere. Gli effetti di questo sono sotto i nostri occhi.
Forse è il momento di concentrare i nostri sforzi verso una diversa direzione, quella cioè di diminuire il denominatore di quella semplice frazione, lasciando che il già elevato numeratore resti invariato.
O forse no... o magari non per me, o magari non domani.. Domani, quando di certo riuscirò a sedare questo mio sbandamento, questa irrazionale debolezza momentanea, correndo ad acquistare quanto necessario ai miei bisogni di uomo moderno, quanto mi manca oggi ma che avrò domani, dopo aver prodotto, ed essermi guadagnato la giornata, reimmettendo nel mercato parte del mio reddito, carburante per il nostro motore sociale, da onesto cittadino contribuente al PIL.

Con sincera stima

Stefano